Textos traducidos

SOGNO

Mio padre spesso sognava di volare
sulle case e sui boschi,
e io ora spesso sogno che vola
e vola ad ogni istante,
con la sua giacca a quadri,
ah,
la sua bonomia,
il suo diabetes,
papà,
vieni,
lo chiamo,
sogna che lo sogno
e sorride
sul guanciale ripiegato,
sulle case,
mio padre,
vieni,
sui boschi,
alla luce di una lampadina legge, pagina
dopo pagina, ora
dopo ora, legge
Il raggio verde, legge
Il colonnello non ha chi gli scrive,
le Memorie di Chaplin,
che ne so, e gli pass oil foglio,
e odoro il suo guanciale,
che prodigio,
niente sa di buono come il suo guanciale,
niente al mondo.

---------------------
Del libro Vigilias, 2007
[Traducción al italiano de Giovanna Del Bello]






UN’AVVENTURA DI ZORRO

Guardai l’orologio. “Merda, Com’è tardi”. Mi defilai con difficoltà dalla calca opprimente. La gente ti schiaccia, come se ci provasse gusto, e tu non puoi evitarne il sudore, quel tremendo fetore che ti obbliga a trattenere il respiro e a sollevare la testa cercando l’aria, intuendo una via d’uscita dalla confusione, dal tamtamtam della musica, dal ritmo attaccaticcio di salsa e merengue. Sia chiaro però che a me piace questo ballonzolare per strada. Mi sono sempre divertito a carnevale, caspita, me la spasso proprio coi travestimenti (uno per ogni giorno della festa). Fin da bambino, quando mia mamma ricuciva vecchie lenzuola e mi metteva il naso finto di cartone, anno dopo anno, i carnevali sono sempre stati la mia passione. E negli ultimi tempi un vero sballo di cuba libre. Il brutto è che devo tornare quasi sempre a casa presto: se non dormo un po’, magari anche solo un paio d’orette, 1’indomani non rendo al magazzino. Assodato: più la sbornia è dura, più il corpo ti rimane floscio. Diventerebbe davvero difficile caricare fogliame di banano dando scivoloni, e non sono disposto a farmi prendere in antipatia dal capo per colpa di un paio di bicchierini in più, che a quest’ ora poi non ne vale nemmeno la pena. Inoltre, che schifo la fine della festa, quando non si sa se è giorno o è notte e sui marciapiedi inciampano gli ultimi ubriachi, pesanti e puzzolenti, come un ammasso di sudore ripugnante.

Saluto gli amici. Mi mandano al diavolo. “Ti perdi sempre il meglio del casino”. Mi calco ben bene cappello e maschera, afferro l’impugnatura del fioretto e stendo il mantello di raso rosso. “Zorro ha finito per oggi”. Indosso il mío migliore travestirnento. Da quando ho passato la trentina mi va stretto, certo, e a dire il vero si è già consumato il collo della camicia nera, ma diciamo le cose come stanno: mi piace questo vestito da spadaccino giustiziere e, se i miei calcoli sono esatti, questo è il settimo martedì di carnevale che Zorro esce in strada.

Al ritorno, prendo l’autobus alle Ramblas. Dietro di me, raggomitolati sui loro sedili, due tipi vestiti da baldracche si scolano una bottiglia di whisky senza nessun complimento. Le loro risatine mi mettono di cattivo umore. Al culmine della sbronza, questi due idioti blateravano di quanto eravamo tutti tristanzuoli sull’autobus. E una cosa è certa: quando si allontana illuccichio della piazza e ti appisoli con lo sballottamento del motore, ti senti già ridicolo, ridicolo e serio sotto un costume che, con la quantità di macchie di vino che lo decorano, ha perso tutto il suo fascino.

Avevamo appena oltrepassato l’ultimo semaforo delIa città quando, poco prima di una fermata incerta, alle mie spalle uno dei due tipacci farfuglia all’altro:

“Guarda, guarda.”

Quasi senza rendermene conto, volsi rapidamente lo sguardo verso il finestrino. Tutti e tre vedernmo, lì fuori, una ragazzina vestita da egiziana che attraversava la strada di corsa. L’altro borbotta:

“Andiamo?”

Trasalii nel sentire il movimento dei loro corpi che si alzavano bruscamente dai sedili. Suonarono il campanello. L’autobus si fermò subito. Spintonando quelli che viaggiavano in piedi, i due stronzi schizzarorno fuori. Era successo tutto troppo in fretta per spiegarmi chiaramente cosa cazzo ci facevo io lì in strada, perché ero sceso dietro di loro, spinto da una rabbia strana che mí ronzava nelle orecchie. “Zorro non avrebbe permesso che due imbecilli simili torcessero neppure un capello aquella ragazza”. L’autobus proseguiva il suo percorso e ci sputò il suo fumo. Impugnai il fioretto di rame mentre camminavo, credo con passo deciso, lungo il marciapiede. “Zorro non consente questi odiosi soprusi”.

I due cretini, sollevandosi le gonne coi lustrini e gridando oscenità, corsero dall’altra parte della strada. Fischiavano dietro alla ragazza, ed era evidente che lei, senza voltarsi, sentiva quei furfanti che la inseguivano sfacciatamente per le strade deserte. Faceva freddo e Zorro, avvolto nel mantello e con la spada sguainata, avanzava cauto e silenzioso. La ragazza travestita da egiziana iniziò a correre con la logica goffaggine di chi porta i tacchi, come le colombe che non spiccano il volo. Sissignori, la faraona era tale e quale a una colombella argentata in pericolo. La mia povera Cleopatra si andò a ficcare in un groviglio di vicoli stretti e disabitati. I due cani bavosi le stavano dietro ghignando:

“Non correre tanto, carina: in ogni caso ti acchiappiamo.”

A mo’ di Tyrone Power, io li seguivo zitto zitto, si potrebbe dire come una vera e propria volpe, oppure come un felino salvatore. Metà Giustiziere Mascherato e metà El Coyote.

“Bella, fermati subito.”

Schifosi, sul serio, quei due coglioni. Erano riusciti ad avvicinarsi alla ragazza. La afferrarono, la sballottarono da una parte all’altra. La ragazzina chiedeva aiuto, aiuto, e presto le sue urla si trasformarono in uno squittio da gatta intrappolata.

“Dái, forza” diceva nervosamente il più alto, tappando la bocca all’egiziana. Quello grassoccio, piuttosto brillo, si abbassò i pantaloni, strappò con violenza la gonna di lamè. Cruuiiic.

La ragazzina si divincolava isterica sotto quell’orso che rideva alla fine con le mutande in mano. L’altro stringeva le bianche braccia di Cleopatra e, non si sa a chi, ripeteva lo stesso ordine:

“Dài, forza.”

Prima che se la facessero, Zorro intervenne dall’angolo. Zorro avvertì:

“Ehi, cornuti, se non lasciate immediatamente la ragazza mi vedrò costretto a sgozzarvi come due maiali.”

Non mi aspettavo una reazione codarda da due violentatori così esperti, ma la verità è che, vedendosi sorpresi, non gli resto altro da fare che darsela a gambe sull’altro lato della strada deserta.

Lí rimasi io, con la spada sguainata, proiettando una lunga ombra da eroe misterioso. Una così temibile presenza doveva imporre rispetto in controluce. Era il trionfo della giustizia. O meglio: era la sconfitta dei due omuncoli più spregevoli del mondo.

E lì c’era la mia adorata Cleopatra, con il viso rosso per il singhiozzo e la vergogna, Cleopatra che piangeva, buttata per terra, con le gambe aperte e il vestito a brandelli. Gemeva come un’ammalata. Zorro si

avvicinò premuroso a prenderle la mano. L’egiziana sembrava chiedere con lo sguardo chi sei, cosa fai qui, perché. Zorro si commuove nel vederle la bocca semiaperta, nello scoprire le belle labbra secche della ragazza e, dietro di queste, i denti brillanti, i denti perfetti sotto le labbra carnose della faraona.

Ho sempre avuto ben chiaro in testa che quando una donna fa una leggera moina con la bocca, un gesto, un increspare di labbra, così, non so, una smorfia vezzosa, tale e quale Cleopatra, in quel momento non puoi rifiutarti di soddisfare il suo ego viziato, devi concederle il favore che ti chiede in silenzio. Non pensarci due volte e dalle il bacio che si meritano le sue labbra asciutte, inumidiscile con la tua lingua ansiosa. Riempiti del suo respiro e riempila del tuo respiro. Si tratta di far bella figura. Ogni volta che Zorro si trova da solo con l’eroina, ogni volta che la salva da un paio di malfattori, deve prenderla tra le braccia e baciarla con passione, impetuosamente, senza bisogno di togliersi la maschera. La ragazza trema tra le robuste braccia del mascherato e non sa che dire, né come ringraziarlo. E al lora, facendo come se non volesse, colpendo coi suoi piccoli pugni la spalla di Zorro, la ragazza egiziana protesta sotto il sapore di tabacco nero e rum bianco della bocca che le bagna il viso, la bocca che le bacia il collo, la bocca che le mordicchia l’orecchio.

Com’era bella Cleopatra. Le sue gambe, quasi brucianti di febbre, si negavano al mio corpo, e il mío corpo, dopo ayer allontanato gli assalitori, ora esigeva il suo giusto tributo. Il destino degli eroi pulsa nel placido abbraccio che chiude l’avventura. Malgrado i suoi gridolini d’impotenza, possedetti con tutte le mie forze la ragazza, mí abbandonai all’impeto dell’alcool e dell’ardore.

Da quell’oscuro vicolo disabitato si poteva ascoltare in lontananza, quasi impercettibile, il tamtamtam della festa giù nella piazza grande. La musica si diffondeva per tutta la città rimbalzando sui lati del viale. La ragazza rimase esausta sotto il mío mantello di raso rossastro, respirando affannosamente, forse preda di un incubo, con lacrime sulle guance. Mi alzai stanco. Mi allacciai la cintura. Raccolsi il cappello da terra. Straccetto logoro che sventola nell’aria, il pennacchio non ha perso lo sfavillio da giocattolo di fiera. L’ombra si allontanava già a capo chino quando, riconsiderando alcuni dei segreti che coordinano le sue scorrerie, lentamente si fermò. Dalla prima traversaritomai verso l’egiziana contusa, che giaceva sul bordo del marciapiede; la girai a pancia in giù e, senza darle il tempo di lamentarsi, con la punta del fioretto le disegnai sulla natica nuda il segno di Zorro, una sottile e rapida zeta di sangue.

Corsi verso la strada. I petardi, quello scoppiettio plumbeo sopra le antenne, si stavano trasformando in un molesto bruciore di stomaco, flatulenza importuna. Giunto alla fermata, con ancora addosso l’odore di saliva e sangue, mi tolsi la maschera e, alla luce dei fari dell’autobus che si avvicinava, cercai l’ora sull’orologio da polso. “Merda, Com’è tardi”.

---------------------
Del libro La Habana y otros cuentos, 1990
[Traducción al italiano de Barbara Malanca]






GRAND-PÈRE ANELIO

Coupés sur le même patron, au premier coup d’oeil et pour un temps, ils donnaient l’illusion d’être frères. Mais pas du tout. Leur caractère les différenciait, et comment! Pour autant, il ne mettait pas chacun d’eux à la place qui aurait dû être la sienne. Le père était comme un enfant et le fils comme un homme qui mesure chacun de ses pas et sait à tout moment ce qu’il doit faire et ne pas faire. Grand-père Anelio était de la race des fêlés, de ceux qui aiment foncer tête baissée, et en avant et tout droit, de ceux qui pressent le pas vers l’inconnu, et advienne que pourra. S’il avait été contemporain de Christophe Colomb, il se serait à coup sûr enrôlé dans l’une des trois caravelles. Papa n’avait hérité de lui que ses larmes faciles, son diabète tardif, son ossature, surtout la forme de son crâne auguste, et son nom, ce qui n’est pas rien; mais il tenait le reste de la branche maternelle : tempérance qui débouchait sur une élégance naturelle, sagesse qui débouchait sur le sens des responsabilités; outre qu’il connaissait les tenants et les aboutissants de ses affaires, papa gérait bien les silences quand il parlait, ce qui lui avait permis de survivre en tant que chef de famille précoce, à tout juste quatorze ou quinze ans, durant la tumultueuse période de la guerre quand, tout à coup, et par la force des choses, il dut travailler comme comptable dans une entreprise bananière de San Andrés et comme peintre d’affiches pour le cinéma de Los Sauces afin de pallier, dans la mesure du possible, l’absence de son père, incarcéré pendant presque un lustre dans les prisons du camp franquiste. En effet, grand-père Anelio, bien qu’il n’eût jamais fait de mal à personne, qui en douterait, paya comme s’il s’était agi d’un délit la conscience qu’il avait d’être un paria de la terre. C’est un fait avéré que quatre habitants de son village s’étaient présentés chez lui une nuit et sous la menace de leurs armes l’avaient conduit dans une remise où ils lui avaient mis une telle raclée qu’ils avaient failli l’envoyer directement au cimetière. Le fils aîné, qui était encore un enfant, avait été obligé d’assister à la scène. Apparemment, il devait voir de ses propres yeux effrayés quel genre de traitement méritaient les athées. Après lui avoir montré de quel bois ils se chauffaient, les membres de cette patrouille d’Action Citoyenne avaient prévenu l’enfant qu’il avait tout intérêt à ne pas suivre les traces de son père et vers le petit matin, en forme d’adieux sous la lumière de la lune, ils lui provoquèrent une hémorragie intestinale de deux terribles coups de pied au postérieur. Après cela, grand-père Anelio disparut du village et aux yeux des siens, comme si on l’avait mangé tout cru. Après avoir passé plusieurs semaines dans la prison de l’ancien couvent de Santo Domingo, il fut transféré à Ténérife en compagnie de plusieurs dizaines de malheureux de toutes sortes où ne manquaient ni maires ni conseillers municipaux ni francs-maçons ni instituteurs ni poètes satiriques. Il fut accusé au cours d’un procès expéditif, grandguignolesque, d’avoir commandé dans les montagnes de Barlovento une troupe d’une cinquantaine d’habitants de la commune, rebelles au gouvernement rebelle. Monsieur le juge lui avait demandé, pour poursuivre la comédie, s’il avait quelque chose à objecter, ce à quoi il avait répondu que oui, qu’à Barlovento, tout du moins en cette année 1936, à peine une vingtained’hommes majeurs y étaient recensés, et que tous n’étaient même pas partisans de la République. Monsieur le juge souffla bruyamment et, comme qui chasserait les mouches, frappa un coup de son maillet en acajou pour conjurer les sophismes. Grand-père Anelio échoua donc dans une gabare qui faisait fonction de prison flottante face à la côte d’Anaga et d’où l’on jetait chaque nuit au fond de la mer un prisonnier attaché dans un sac pendant que les autres, sur le pont, feignant de dormir couchés sur le côté, sombraient dans l’insomnie de la terreur. Ensuite, comme ce fut le cas de tant d’autres, le sort l’expédia provisoirement, mais définitivement pour beaucoup d’entre eux, au pénitencier de Fyffes, ancien magasin d’une compagnie bananière anglaise où s’entassaient des centaines de détenus, extirpés comme des dents de sagesse, et sans anesthésie, de la nouvelle Espagne naissante. Heureusement, grâce
à l’amnistie de 1941, il en ressortit sur ses deux jambes, bien que rendu méconnaissable par la dénutrition. Et il put raconter tout cela. Cependant, par respect pour lui-même ou pour les autres, il ne prodigua par la suite que peu de détails sur son expérience carcérale, jalon fondamental dans une biographie qui semblait sécrétée par la plume juvénile de don Pío Baroja. Elle ne manquait pas d’éléments romanesques. Depuis le début. Fils d’une paysanne mère célibataire, un beau brin de fille aux pommettes proéminentes, et d’un petit-bourgeois adultère d’une petite ville portuaire, fruit par conséquent de ce qu’on nommait autrefois à voix basse amours illicites, grand-père Anelio naquit et grandit, étranger à toute peur, dans le village de Tijarafe, d’où se déploient les couchers de soleil les plus sanglants et les mers les plus prometteuses. Quand il n’était qu’apprenti cordonnier, il décida de prendre, il ne pouvait en aller autrement, des poses de dilettante anarchiste, ou plutôt anarchique, qui se matérialisèrent plus tard dans son engagement diffus de révolutionnaire phraseur, c’est-à-dire dans un républicanisme macéré dans mille discussions d’atelier où, pour une quelconque injustice qui sautât aux yeux, on demandait des comptes aux divinités, et où tout finissait par être relativisé car tout, au bout du compte, est trompeur et malléable, même les idéologies. Disons qu’au cours de son périple vital pas très long, sans rompre avec sa routine domestique et sans prendre une part active dans l’orientation ni le fonctionnement de quelque cellule de quelque parti politique que ce soit, grand-père Anelio eut le temps et la hardiesse de passer d’un anarchisme à la petite semaine au communisme, du communisme au socialisme, du socialisme au républicanisme tout court, du républicanisme tout court à l’antifranquisme muselé et tenu en bride. De surcroît, pendant ses dernières années il se conduisit de façon profondément cervantine, non qu’il fût un inconditionnel du Quichotte, qu’il avait sans doute lu, dégusté et même imité tant que rien ni personne ne l’en avaient empêché, mais parce que son comportement de résistant face au jeu de massacre du monde, après tant de privations et de déboires, se fondait sur la compréhension, ce qui ne veut pas dire l’acceptation, des faiblesses humaines. Pour en arriver à ce degré de bonhomie il faut savoir en baver, rire à se décrocher la mâchoire des grandes questions et des grands événements et traverser pieds nus le bûcher des vanités, au risque de s’y brûler. Comme Cervantès, grand-père Anelio était né sous une étoile hasardeuse, parfois propice, qui n’excluait pas l’inclination au voyage. À peine âgé de plus de vingt ans, il émigra à Cuba, d’où, une fois établi comme artisan du cuir, il demanda par lettre à Lola, sa fiancée de Santa Cruz de La Palma, de venir le rejoindre, et elle partit immédiatement à sa rencontre dans la cale dortoir d’un vieux rafiot, avec un bébé dans les bras, mon père. À partir de là, plus rien n’était impossible. La famille allait grandir dans le bonheur et les soucis, d’abord à Santiago et plus tard à La Havane. Là-bas, dans un État jeune, depuis peu séparé de la couronne espagnole, ses premiers enfants reçurent un enseignement public plus que digne, encore inimaginable dans la mère patrie. Ils reçurent aussi des prénoms étrangers au calendrier des saints: Anelio, Harmonie, Edison et Amérique. Le clan s’accroîtrait, après son retour aux Canaries sans un sou, avec les naissances de Volney (qui mourut tout petit, de la grippe), de Vie, de Solidaire, d’Iris, d’Oníbil et de Hollande. Il était évident pour grand-père Anelio que le fond et la forme des mots devaient être parties prenantes de son projet de vie, inspiré de la libération des hommes telle que la propose l’Hymne à la joie. Ces prénoms n’étaient ni nouveaux ni bizarres à La Palma. La coutume de donner des prénoms laïcs et éloquents, fertilisée avec les cendres encore chaudes des Lumières et arrosée avec la pensée de la gauche internationaliste du début du XXe siècle, s’était profondément enracinée dans la classe ouvrière de l’île, pionnière aux Canaries dans l’appel à la grève et l’organisation de bibliothèques, de confédérations, de caisses de solidarité, d’écoles du soir et de veillées littéraires. Aussi, dans les registres d’état civil de sa petite capitale seraient inscrits, avec encore plus de véhémence dans la période qui avait précédé la guerre, des prénoms aussi singuliers qu’Anarchie, Adolie, Almanzor, Anatolie et Anatolio, Apollon, Arabie et Arabio, Araminthe, Argolide, Ariel, Arley, Arminde, Archimède, Acidalie, Belgique, Boanergès, Catulle, Clemensor (version sui generis de Clemenceau), Complaine, Coproquin (pour Kropotkine, l’idéologue anarchiste), Crhysolithe, Cruzkaya (pour Kroupskaïa, patronyme de l’épouse de Lénine), Darwin, Démocratie, Dorisol, Enervino, Engel (pour Engels), Estalin (sic), Etna, Febles, Fidio, Florisel, Frean, Galaor, Gerineldo, Grenoble, Héraclite, Hermeland, Idée, Inerte, Lénine, Life (prononcé à la castillane), Loire, Luger, Marconi, Naïade, Neido, Nérida, Ninive, Nubie, Onélie, Oreste, Parménide, Pavlova, Pline, Rizal, Socrate, Thessalie, Venius, Volga, Voltaire, Yarmila et de nombreux autres du même genre qu’aucun décret-loi ne put effacer de l’usage quotidien. Grand-père Anelio justifiait les prénoms de ses enfants par de vibrants arguments associés à la littérature propre au climat de liberté qui régnait alors, voire même à une sorte de résistance souterraine et inutile face aux conventions: celui d’Anelio-fils provenait d’Anelio-père, aussi simple que cela, et il devait en être ainsi avec chaque fils aîné des générations futures; celui d’Harmonie exprimait un candide désir d’équilibre et de beauté; celui d’Edison reprenait le nom de famille du grand inventeur de l’Illinois, en hommage à la créativité bienfaitrice et à la faculté d’entreprendre en général; celui d’Amérique faisait allusion au Nouveau Monde, émancipé et fraternel, tel que l’avaient chanté Rubén Darío, José Martí ou Walt Whitman; celui de Vie était la fantaisie d’un père qui voulait appeler sa fille avec la délectation de celui qui dit «amour de ma vie» ; celui de Solidaire s’expliquait naïvement de lui même; celui de Volney renvoyait à l’intrépide philosophe des Lumières qui avait voyagé au Proche-Orient; ceux d’Iris et de Hollande étaient davantage dus à leur belle sonorité syllabique qu’à leurs référents sémantiques ; celui d’Oníbil, enfin, évoquait sous forme de code, comme une anagramme délibérément imparfaite, le héros soviétique Litvinov, démon sulfureux à l’époque où le Caudillo d’El Ferrol tenait la queue de la poêle. Au fait, Iris, Hollande et Oníbil furent conçus après son expérience carcérale. Eh oui, la vitalité de grand-père Anelio était stupéfiante. Et comment! Hors mariage, il eut encore un fils, appelé Floréal. Un autre prénom retentissant. Une autre histoire pour une autre occasion.

---------------------
Del libro Historia del mundo ilustrada, 2010
[Traducción al francés de Juan Vila]






GRAND-PÈRE PANCHO

Cette cicatrice sur le dos de ma main droite, véritable marque au feu, signe d’un serment de loyauté qui ne fait pas l'ombre d'un doute, me lie pour tou-jours à grand-père Pancho. À peine une petite cicatrice, quasiment une goutte de chewing-gum collée à la peau. Il me suffit de la voir pour revivre les événements comme si c’était maintenant: après le déjeuner, dans la salle á manger de la vieille maison familiale, je suis assis sur les genoux de grand-père Pancho et tout à coup, sentant d’abord sur ma petite main le coup d’épingle puis l'ébranlement d’une douleur terrible qui s'insinue au plus profond de mes os, je hurle pendant qu’une force colossale m’éleve vivement jusqu’au lustre à pampilles aux éclats bleutés qui pend au plafond et d’où mes yeux larmoyants distinguent de manière floue là en bas, sans solution de continuité, la nappe, les tasses à café sur la table, les têtes de maman, de papa, d’oncle Geno et de Nena, aïe, et, là-haut, la même force qui m’a soulevé comme un pantin me fait osciller, c’est grand-père Pancho qui me soutient et on dirait qu’il danse un zapatéado ou peut-être se secoue-t-il pour faire tomber quelque chose par terre, oui, il s’agit d’un cigare allumé, c’est cela, le cigare lui a glissé des doigts et sa braise s’est retrouvée sur ma main, je viens de me brûler et on m’applique tout de suite un onguent jaune, comme ea cuit, maman, maman, mais grand-père Pancho ne me lâche pas, il me prend dans ses bras, m’embrasse sur les tempes et dit que c’est fini, mon petit, voilá, c’est fini. Telles sont les images rémanentes d’un souvenir qui ne peut s’évanouir purement et simpIement. Des semaines après l’accident, constatant que la trace de la blessure commençait à se fixer, je repensais encore à ses moindres détails, à la morsure de la douIeur, à la brusque ascension, au balancement de mon corps en l’air et à tout le reste; pourtant, au bout de quelques mois, alors que je n’avais guère plus de cinq ans, je reconstruisais deja mentalement la scène, de sorte qu’il me soit aisé à l’avenir de la retrouver à partir de la dynamique d’un plan-séquence. À six ans, donc, c’était l’image recréée à cinq qui me revenait, et à sept celle recréée à six, si bien que, pourquoi s’arrêter en si bon chemin, tout au long d’une vie, la scène originelle, projetée en principe par la mémoire récente, allait se dédoubler encore et encore comme souvenir d’un souvenir, au fur et à mesure que je tirais sur le fil narratif qui lie ce qui est devenu légende. Tôt ou tard on atteint le point non cardinal à partir duquel on reprend les faits non pas comme ils ont été vécus mais comme ils ont été évoqués, parfois même rêvés. Il en est ainsi de l’image de grand-père Pancho, de sa voix, toutes deux évanescentes et réapparaissant parfois au milieu de fulgurances chimériques qui de temps à autre répondent à l’appel inattendu d’un arôme ou d’une saveur pour me ramener á la maison au couloir d’azulejos, à la maison avec des échos et des portraits d’ancétres aux couleurs fanées et des romans de Stefan Zweig et des montres de poche et des gants en cuir dans le tiroir de l’armoire en sapin d’Espagne et des assiettes peintes à la main et des aquarelles de débutant d’Oncle Quico accrochées aux murs et des odeurs vénérables de fourneaux qui viennent nous expliquer l’origine du monde. Grand-père Pancho joue un rôle essentiel dans l’origine du monde. Tout bien considéré, grand-pére Pancho était l’origine du monde. Lui seul, avec sa titanesque et sa tenace suffisance de chef de famille. Il se considérait peut-être comme le fondateur d’une sorte de vice-royauté, comme les anciens producteurs de cinéma d’Hollywood, des cabochards qui se sont faits eux-mêmes et qui, s’ils tombent, se relèvent, la tête bien haute et grisonnante, marchent avec classe, s’installent avec classe dans un fauteuil à oreilles et fument avec classe d’imposants cigares à travers les volutes desquels on appréhende avec clairvoyance tout ce qui se passe autour. Fumée de havanes, non de La Havane mais de La Palma: nuncios, demi-nuncios, coronas, demi-coronas, petit-cetros, panatellas, cremas, viuditas et autres vitoles de sa fabrique de tabac. Grand-père Pancho très, très élancé, large d’épaules et aux os fins —fins comme des tiges de persil, d’après grand-mère Paulina. Grand-père Pancho, faisant honneur á son surnom, «Gibrán», qui le différenciait, en tant que grand échalas, des autres fabricants de tabac de la ville. Grand-père Pancho, avec ses lunettes aux verres en cul de bouteille, portant costume et cravate de deuil, comme tous les républicains de la génération humiliée à laquelle il s’enorgueillissait d’appartenir. Malgré les rigueurs de l’exil intérieur, il s’interdisait de se laisser intimider par quoi que ce soit. Il marchait la tête haute, Iittéralement. En permanence. Avant sa douche du matin, tel un boxeur dans son peignoir en tissu éponge et sa serviette autour du cou, il pratiquait la gymnastique suédoise à côté du lavabo: les bras allongés, parallèles à la verticale, parallèles à l’horizontale, parallèles à la verticale, parallèles à l’horizontale, un deux, un deux, flexion des genoux et, le torse droit, en bas, accroupi, en haut, debout, en bas, accroupi, en haut, debout, un deux, un deux, inspiration par le nez et expiration par la bouche, aux dents fortes, irrégulières, jaunies par la nicotine mais blanchies à force de bains de bouche mentholés Kemphor. Ensuite, il s’asseyait pour prendre son petit-déjeuner, des noix avec du pain et de l’avocat antillais saupoudré de gros sel. Y compris en dehors de ces rituels, au repos ou non, il rayonnait de fierté, transmettait la puissance tellurique de ce qui se répand au-delà de ses limites. Ce n’est pas en vain qu’il s’était sorti des gouffres de la misère par sa seule volonté et son seul mérite. Rien ne lui était tombé du ciel. Enfant et adolescent, il avait découvert les âpres secrets de l’agriculture auprès de son père, métayer sur le domaine des Abreu; très jeune, après avoir suivi des cours du soir, il s’était initié au métier du tabac parmi les rouleurs de la confédération de gauche «Le Travail», et il avait ainsi pu devenir très vite propriétaire d’une petite boutique avec marque déposée, «Gloria Palmera». Peu avant de se marier, il était déjà un industriel réputé qui maîtrisait tout ce qui touche à l’entreprise, depuis l’équilibre entre dépenses et recettes jusqu’à
l’art de la contrebande sur le port de Santa Cruz de La Palma. Comme il savait
en outre cultiver, sécher et amener le tabac à maturation et qu’en conséquence il se procurait les meilleures lots de balles dans les hangars de Breña Alta, il ne tarda pas à obtenir des bénéfices plus que considérables, immédiatement investis dans l’achat de terres afin d’y semer le tabac dont sa manufacture avait besoin. Il parvint ainsi à la condition idéale de bourgeois possédant maison —le rez-de-chaussée pour le magasin de tabac et le premier étage pour la demeure familiale—, chaussures en chevreau, jambon cru pendu derrière la porte de la cuisine, grade d’apprenti dans une loge maçonnique, la «Abora I», et suffisamment d’argent noir pour faire deux ou trois voyages par an à Madrid, habitude qu’il ne perdrait jamais, même une fois devenu veuf, quand il eut des relations avec une choriste, qui plus tard fut vedette de revue et actrice de second rôle au cinéma, dont je tais par discrétion le retentissant nom de scène. Je me l’imagine en train de toussoter dans les fauteuils d’orchestre du Théâtre Martín, à côté de la rue Fuencarral, avec son manteau et ses gants sur les genoux, absorbé par les sages chorégraphies de comédiennes sans le sou. Grand-père Pancho allait habituellement à Madrid en voyage d’affaires, c’est
du moins comme ça qu’ill es appelait, mais il est évident que le monopole de la Tabacalera ne lui permettait pas de vendre ses produits manufacturés en dehors des Canaries. Il faut dire les choses comme elles sont: grand-père Pancho allait à Madrid pour se délecter des spectacles de variétés et goûter les tapas des tavernes de la Cava Baja, et il le faisait car il en avait tout bonnement envie et qu’il pouvait se le permettre, offrant des cigares aux serveurs, pourboire sans pareil qui ouvrait la plupart des portes de la capitale d’un pays exsangue. Tout cela enrichirait son expérience du monde et son esprit de sérieux, qui transparaissaient dans ses conversations et qui l’aidèrent à résoudre tant de petits problèmes avec ses créanciers et le fisc à l’époque des vaches maigres, presque à la fin de sa vie, quand le mildiou du tabac venait à bout de
toutes les récoltes de La Palma et que la crise internationale du pétrole devenait la crise personnelle de tout un chacun. Moi, j’étais encore un enfant lorsque grand-père Pancho, à moitié ruiné, manifesta les premiers signes de son déclin définitif, sans même s’en douter: un rhume chronique évolua vers une grippe mal soignée qui l’alita a tout jamais. Sous un drap qui lui arrivait au menton, il m’appelait à chaque instant pour que je lui mette sur l’électrophone un 33 tours de Los Guaracheros de Oriente, toujours le même. Mets-moi les Cubains, demandait-il à mi-voix. «Mariposita de primavera, / alma
con alas que errante vas», chantait le grand Ñico Saquito, et grâce aux vertus de ce baume grand-père Pancho tombait en extase et regardait fixement le plafond, avec un air impénétrable de nouveau né. «Yo quiero verla para besarla, / con esos besos que tú a la flor / das cuando quieres la miel robarle». Anelito, mets-moi les Cubains, répétait-il à toute heure, étranger à la chambre où il gisait, à l’heure de vie qui lui était encore octroyée. Mais, comme il n’était pas conscient du mal qui le consumait, je repoussais à cause de mon appréhension le moment d’aIlumer l’électrophone et j’observais son visage émacié. J’appris avec plaisir le répertoire complet, probablement le meilleur lénitif pour cette toux de condamné, «Mariposita de primavera», «Dulce embeleso», «Pobre bohemia», «Retorna», «El pagaré», «El que siembra su
maiz»... Un après-midi de printemps de 1972, je frémis en voyant, alors qu’il se levait pour aller aux toilettes, la façon dont l’épine dorsale du grand Gibrán se courbait sur une armature de côtes qui en disaient long. Le cou ne supportait plus le poids du crâne. C’était la mort en personne, la mort plus vivante que jamais, comme sortie d’une gravure de Dürer. Un autre après-midi de printemps, plus de trente ans après, mon oncle Quico m’a demandé de mettre les Cubains (comme ça il l’a dit: «Mets-moi les Cubains») pendant qu’il peignait son dernier tableau dans son atelier. J’ai bien choisi l’expression: son
dernier tableau. Oncle Quico, qui n’avait plus que quelques semaines à vivre, se sentait faible et désirait écouter exactement le même enregistrement de Los Guaracheros, aujourd’hui numérisé; mais le plus étonnant de cette affaire c’est qu’il n’était pas au courant de l’appétence obsessionnelle de son père moribond. Stupéfait, j’ai palpé la cicatrice de ma main, cette étincelle de feu sacré, et sans dire un mot, en enfant obéissant, j’ai fouillé dans la pile de disques à côté de la chaîne. Il était là. En réentendant «Mariposita de primavera» j’ai compris pourquoi la Terre tourne, et pourquoi elle tourne sur elle-même. «Dile que torne, mi compañera, / por los jardines de mi quimera, / como un suspiro de amor fugaz». Et je erois que le paradis de nos morts doit être de la musique. La musique. Que demander de plus?

---------------------
Del libro Historia del mundo ilustrada, 2010
[Traducción al francés de Juan Vila]






AVÔ ANELIO

Moldados pelo mesmo padrão, durante algum tempo e à primeira vista pareciam irmãos. Mas não. o carácter distinguia-os, e de que maneira. Não é que os colocasse a cada um no seu devido lugar. O pai era como um miúdo e o filho como um senhor que mede cada passo sabendo o que deve fazer e o que não deve em todos os momentos. O avô AneIio pertencia à estirpe dos aloucados que gostam de estar-se completamente nas tintas para tudo e, sempre em frente, apressam o passo para o desconhecido, sem pensar nas consequências. Se tivesse sido contemporâneo de Cristóvão Colombo, certamente ter-se-ia inscrito numa das três caravelas. O papá dele só herdou a lágrima fácil, a diabetes tardia, a estrutura óssea, sobretudo o esboço do crânio majestoso, e o nome, o que não é pouco; mas o resto veio do lado materno: temperança que conduz a uma elegância natural, discrição que conduz ao sentido da responsabilidade: para além de conhecer o essencial dos assuntos entre mãos, o papá geria bem os silêncios ao falar, o que lhe bastou para sobreviver como precoce chefe de família, com apenas catorze ou quinze anos, no conturbado período da guerra, quando de repente e obrigatoriamente teve de trabalhar como contabilista de urna empresa de bananas em San Andres e como desenhador de cartazes do cinema de Los Sauces para compensar na medida do possível a ausência do pai, preso durante quase um lustro nas prisôes do partido nacional. Porque, de facto, o avô Anelio, embora nunca fizesse mal a ninguém, disso não há dúvidas, pagou como um delito a consciência de pária da terra. É coisa provada que urna noite meia dúzia de vizinhos o levaram de casa com pistola apontada e num alpendre lhe deram tal tareia que por pouco não o mandaram directamente para o cemitério. O primogénito, ainda criança, foi obrigado a presenciar a cena. Segundo parece, tinha que ver com os seus olhos arregalados o género de tratamento que mereciam os ateus. Depois de lhe mostrarem como eram as coisas, os membros daquela patrulha de Acção Cidadã avisaram o miúdo de que não lhe convinha seguir as pisadas do pai, e de madrugada, como despedida à luz da Iua, prococaram-lhe urna hemorragia intestinal com dois terríveis pontapés nas nádegas. Desde então o avô Anelio desapareceu da aldeia e da sua gente, como se o tivesse tragado aterra. Depois de passar várias semanas nos cárceres do antigo convento de Santo Domingo, foi trasladado a Tenerife com várias dezenas de desgraçados de toda a laia entre os quais não faltavam alcaides nem vereadores nem professores nem poetas satíricos. Condenaram-no em juízo sumário, mal disfarçado, por comandar nos montes do município de Barlovento uma tropa de cinquenta vizinhos insurrectos contra o governo insurrecto. O senhor juiz perguntou-lhe, continuando a farsa, se tinha alguma coisa a objectar, e ele respondeu que sim, que no Barlovento, pelo menos naquele ano de 36, só estavam recenseados uns vinte varões adultos, e nem todos afectos à República. Sua senhoria resfolegou e como quem enxota moscas deu uma pancada com o martelo de mogno para esconjurar sofismas. E assim o avô Anelio foi parar a uma barcaça que cumpria as funções de cárcere flutuante frente às costas de Anaga e da qual todas as noites atiravam para o fundo do mar um prisioneiro amarrado dentro de um saco enquanto os restantes, fingindo-se adormecidos, deitados de lado na coberta, se afundavam num terror insone. Depois, como a tantos outros, calhou-lhe em sorte o destino provisório, para muitos definitivo, do presídio de Fyffes, antigo armazém de uma produtora inglesa de banana onde se amontoavam centenas de réus extraídos, como dentes do siso, e sem anestesia, da nova concepção de Espanha. Do mal o menos, pois saiu pelo seu próprio pé, embora irreconhecível devido à subnutrição, com a amnistia de 41. Podia contar. No entanto, por decoro ou por vergonha, daí em di ante só revelou alguns pormenores da experiencia prisional, período fundamental numa biografia que parecia instilada pela pena juvenil de Dom Pio Baroja. Elementos romanescos não lhe faltam. Desde o princípio. Filho de uma camponesa solteira, bonitona de maçãs salientes, e de um pequeno-burguês adúltero de pequena cidade portuária, fruto daquilo que outrora se considerava em voz baixa paixão ilícita, o avô Anelio nasceu e cresceu sem medo de nada na povoação de Tijarafe, onde se alargam os entardeceres mais sangrentos e os mares mais prometedores. Quando era apenas um aprendiz de sapateiro remendão, decidiu adoptar, como não podia deixar de ser, a pose de diletante anarquista, ou melhor anárquico, mais tarde cristalizada no compromisso difuso de revolucionário de boca, isto é do republicanismo macerado em mil tertúlias de oficina, onde por qualquer injustiça que saltasse à vista se pediam contas aos de uses e por fim se relativizava tudo porque tudo acaba por ser enganoso e maleável, inclusive as ideologias. Digamos que no seu não muito longo périplo vital, sem interromper a rotina doméstica e sem tomar parte activa na orientaçáo nem no funcionamento de nenhuma célula de nenhum partido político, o avô Anelio teve tempo e atrevimento para passar de revolucionário de meia tigela a comunista, de comunista a socialista, de socialista a republicano à pressão, de republicano à pressão a antifranquista na retranca. Por acréscimo, nos seus últimos anos comportou-se como um cervantino até à medula, não porque fosse seguidor do Quixote, que sem dúvida leu, desfrutou e até imitou desde que nada nem ninguém o impedisse, mas porque a sua atitude de resistente pim pam pum do mundo, após tanta penúria e tanta frustração, se baseava na compreensão, que não era aceitação, das debilidades humanas. Para chegar a esse ponto de bonomia há que suar as estopinhas, rir às gargalhadas das grandes questões e dos grandes estados e saltar com os pés descalços sobre a fogueira das vaidades, ainda que chamusque. Como Cervantes, o avô Anelio carregou às costas uma estrela funesta, às vezes propícia, que não excluía a inquietação viajante. Com vinte e poucos anos emigrou para Cuba, de onde, ao estabelecer-se como artesão de couro, mandou uma carta de chamada a Lola, a sua noiva de Santa Cruz de la Palma, que entretanto foi ao seu encontro com um bebé nos braços, meu pai, na adega comunitária de uma carraca. A partir daí nada seria impossível. A família cresceria feliz mas a muito custo, primeiro em Santiago e pouco mais tarde em Havana. Aí, num Estado jovem, não havia muito tempo separado da Coroa espanhola, os seus primeiros filhos receberam uma mais que digna ínstrução pública, ainda impensável na mãe pátria. Receberam, também, nomes estranhos ao calendário cristão: Anelio, Armonía, Édison e América. O clã aumentaria, após regressar sem um cêntimo às Canárias, com o nascimento de Volney (que morreu muito pequeno, de gripe), Vida, Solidario, Iris, Oníbil e Holanda. Era evidente que para o avô Anelio o fundo e a forma das palavras deviam ter a ver com o seu projecto de vida inspirado na libertação dos homens segundo propõe o Hino da Alegria. Isso não era novo nem raro em La Palma. O hábito de impor nomes laicos e significativos, adubado com resquícios do Iluminismo e regado com o esquerdismo internacional de começos do século XX, calou fundo na classe operária da ilha, pioneira nas Canárias na convocatória de greves e na organização de bibliotecas, confederações, caixas de solidariedade, escolas nocturnas e noitadas literárias. Assim, no registo civil da sua pequena capital seriam inscritos, com maior afinco antes da guerra, nomes tão peculiares como Acracia, Adolia, Almanzor, Anatolia e Anatolio, Apolo, Arabia e Arabio, Araminta, Argólida, Ariel, Arley, Arminda, Arquímedes, Asidalia, Bélgica, Bohanerges, Catula, Clemensor (versão sui generis de Clemenceau), Complaine, Coproquín (do ideólogo anarquista Koprotkin), Cristólita, Cruzkaya (de Krupskaya, patronímico da esposa de Lenine), Darwin, Democracia, Dorisol, Enervino, Engel (de Engels), Estalin (sic), Etna, Febles, Fidio, Florisel, Frean, Galaor, Gerineldo, Grenoble, Heráclito, Hermelandro, Idea, Inerto, Lenin, Life (com pronúncia castelhana), Loira, Lúger, Marconi, Náyade, Neido, Nérida, Nínive, Nubia, Onelia, Orestes, Parménides, Paulova, Plinio, Rizal, Sócrates, Tesalia, Venius, Volga, Voltaire, Yármila e muitíssimos outros de similar índole que nenhum decreto-leí pôde apagar do uso quotidiano. O avô Anelio justificava os nomes dos seus filhos com vibrantes argumentos asociados à ficção própria daqueles ares de liberdade, quando não a uma espécie de resistência encoberta e inútil perante o convencionalismo: o do Anelio-filho procedia de Anelio-pai, e ponto final, assim devia continuar com cada primogénito de futuras gerações; o de Armonía expressava um cândido desejo de equilíbrio e beleza; o de Édison reconvertia o apelido do grande inventor de Illinois em homenagem à criatividade benfeitora e ao espírito empreendedor em geral; o de América aludia ao Novo Mundo, emancipado e fraterno, tal como cantaram Rubén Darío, José Martí ou Walt Whitman; o de Vida era o capricho de um pai que queria chamar a sua filha com a mesma fruição com que se diz «meu céu»; o de Solidario explicava-se ingenuamente por si mesmo; o de Volney recordava o ilustre e intrépido filósofo que viajou pelo Próximo Oriente; os de Iris e Holanda deviam-se à bela sonoridade silábica mais do que aos seus referentes semânticos; o de Oníbil, por último, evocava, na sua essência, como um anagrama mal resolvido, o herói soviético Litvinov, demónio sulfuroso da época em que o Caudilho de Ferrol já mandava. Por certo, Iris, Holanda e Oníbil foram concebidos depois da traumática experiência prisional. Sim, a vitalidade do avô era assombrosa. Tanto assim que fora do casamento teve mais um filho, chamado Floreal. Outro nome retumbante. Outra história para outra ocasião.

---------------------
Del libro Historia del mundo ilustrada, 2010
[Traducción al portugués de José Agostinho Baptista]






AVÔ PANCHO

Esta cicatriz nas costas da mão direita, verdadeira marca de fogo, une-me para sempre ao avô Pancho como rúbrica de um juramento de lealdade, definitivo e incontestável. Apenas esta pequena cicatriz, quase uma bolinha de chiclote agarrada à pele. Só de vê-la revivo o acontecimento como se fosse hoje mesmo: depois do almoço na sala de jantar do velho casarão familiar, estou sentado sobre os joelhos do avô Pancho e de repente, ao sentir na mão primeiro a alfinetada e depois a comoção de uma dor terrível que se infiltra até ao fundo dos ossos, uivo enquanto uma força descomunal me levanta velozmente até ao candeeiro de vidros com reflexos azulados que pende do tecto e do qual os meus olhos chorosos distinguem nubladamente, sem ordem de continuidade, mais abaixo, a toalha, as chávenas de café sobre a mesa, as cabeças da mamã, do papá, do tio Geno e de Nena, ai, de tão alto faz-me oscilar a mesma força que me ergueu como um boneco, é o avô Pancho que me segura e parece que dança um sapateado ou talvez se sacuda para que alguma coisa caia no chão, sim, trata-se de um charuto aceso, isto é, o charuto deslizou entre os dedos e a sua brasa veio cair na minha mão, acabo de queimar-me e entretanto aplicam um unguento amarelo, como arde, mamã, mamã, mas o avô Pancho não me larga, abraça-me, beija-me na testa e diz que já passou, meu menino, vá lá, já passou. Eis aqui o remanescente de uma lembrança que não pode esfumar-se só porque sim. Ao comprovar como começava a fixar-se a marca da ferida, semanas depois do precalço ainda pensava nos mais ínfimos pormenores, a dentada da dor, a brusca ascensão, o balanço do meu corpo no ar e tudo o resto, e portanto ao fim de uns meses, não tendo mais de cinco anos de idade, já reconstruía mentalmente a cena, pelo menos para que daí em diante não me custasse recuperá-la a partir da perspectiva dinâmica de um plano sequencial. Com seis anos, pois, vinha ao meu encontro a imagem recriada com cinco, e com sete a recriada com seis, e assim, volta e meia, ao longo de uma vida o clarão inicial, em princípio projectado pela memória recente, iria repetir-se muitas vezes como recordação de uma recordação sempre que a fosse buscar ao fio narrativo que ata o lendário. Tarde ou cedo alcançase o ponto não cardeal a partir do qual se retoma não o facto vivido mas sim a sua evocação, às vezes a sua simples fantasia. O mesmo acontece também com a imagem do avô Pancho, tal como a sua voz, ambas evanescentes e por momentos reaparecidas entre fantasmagóricos clarões que numa ou noutra tarde respondem ao inesperado apelo de um aroma ou de um sabor para reconduzir-me à casa do corredor de azulejos, a casa cheia de ecos e desvanecidos retratos de bisavós e romances de Stefan Zweig e relógios de bolso e luvas de pele na gaveta do armário de abeto e pratos pintados à mão e as primeiras aguarelas do Tio Quico nas paredes e os odores sagrados de fogões que vêm explicarnos a origem do mundo. O avô Pancho faz parte decisiva da origem do mundo. Ele com a sua titânica e obstinada auto-suficiência de chefe de família. Talvez se julgasse fundador de uma espécie de vice-reinado, como os antigos produtores cinematográficos de Hollywood, teimosos feitos a pulso que ao cair se levantam com a cabeça bem alta e grisalha, andam com classe, com classe acomodamse numa poltrona e com classe fumam grandiosos charutos através de cujas volutas de fumo se apreende com clarividência quanto acontece à volta. Fumo de havanos não de Havana, mas de La Palma: nuncios, meios nuncios, coronas, meias coronas, petit-cetros, panetelas, cremas, viuditas e outras marcas da sua fábrica de tabaco. O avô Pancho, muito, muito espigado, de costas largas e pernas finas, -- finas como caules de salsa, segundo a avó Paulina --. O avô Pancho, honrando a alcunha de «Gibrán», que o distinguia como uma haste entre o tabaqueiros da cidade. O avô Pancho com óculos de fundo de garrafa verde, de fato e gravata de luto como todos os republicanos da geração humilhada à qual se orgulhava de pertencer. A pesar dos rigores do exílio interior, não se permitia atemorizar-se perante nada. Enchia literalmente o peito. A toda a hora. Como um pugilista com roupão felpudo e toalha ao pescoço, antes do duche matinal fazia ginástica sueca na casa de banho: os braços esticados, paralelos na vertical, paralelos na horizontal, paralelos na vertical, paralelos na horizontal, um dois, um dois, flectindo os joelhos e, com o tronco recto, abaixo, de cócoras, acima, de pé, abaixo, de cócoras, acima, de pé, um dois, um dois, inspirando pelo nariz e expirando pela boca de dentes fortes, irregulares, amarelos da nicotina mas polidos à base de enxágues do colutório mentolado Kenphor. Depois sentava-se a tomar o pequeno-almoço de nozes com pão e abacate das Antilhas salpicado de sal grosso. Mesmo fora destes rituais, em repouso ou não, transmitia a centella da sua altivez, a potência telúrica daquilo que excede os seus limites. Não em vão por vontade própria e por méritos próprios tinha saído do poço da pobreza. Nada lhe caíra do céu. Ainda menino e adolescente descobriu os ásperos segredos da agricultura ao lado do pai, intermediário na quinta dos Abreu; de jovem, depois de frequentar uma escola nocturna, iniciou-se no ofício de tabaqueiro entre os torcedores da confederação esquerdista «O Trabalho», e assim pôde rapidamente tornar-se fabricante de charutos com marca registada, «Gloria Palmera». Pouco antes de casar-se já era um industrial reputado que dominava todas as facetas empresariais, desde o balanço entre gastos e poupanças até à arte do contrabando no molhe de Santa Cruz de la Palma. Como também sabia cultivar, secar e curar o tabaco e por isso conseguia as melhores selecções de feixes nos pilões de Breña Alta, não tardou em obter benefícios mais do que consideráveis, entretanto investidos na compra de terras para semear o tabaco que a sua fábrica necessitava. Desta maneira alcançou o almejado estatuto de burguês com casa própria –o rés do-chão para a tabacaria e o 1ºandar para vivenda familiar–, sapatos de pele de cordeiro, perna de presunto serrano pendurada atrás da porta da cozinha, título de aprendiz numa loja maçónica, a «Abora I», e dinheiro escuro suficiente para fazer por ano um par de viagens a Madrid, hábito que nunca perderia, nem sequer na sua fase de viuvez, quando se tornou íntimo de uma corista que mais tarde foi vedette e actriz secundária de cinema cujo sonante nome artístico omito por discrição. Imagino-o pigarreando no pátio de poltronas do Teatro Martín, junto à Calle Fuencarral, com o sobretudo e as luvas sobre os joelhos, absorto perante ponderadas coreografias de comediantes sem cheta. O avô Pancho costumava ir a Madrid em viagens de negócios, ou pelo menos assim as chamava, mas era claro que o monopólio da Tabaqueira não lhe permitia vender as suas manufacturas fora das Canárias. As coisas como são: o avô Pancho ia a Madrid desfrutar dos espectáculos de variedades e comer petiscos nas tabernas da Cava Baja, e fazia-o porque lhe dava na real gana e porque podia oferecer aos empregados charutos como gorgeta original, a que mais portas abria na capital de um país exangue. Tudo isso enriqueceria a sua vivência e a essência das suas conversas que tanto o ajudaram a resolver pequenos problemas com credores e com as Finanças na época das vacas magras, quase no fim da sua vida, quando a praga do bolor azul acabava com todas as colheitas de tabaco de La Palma ao mesmo tempo que a crise internacional do petróleo se transformava na crise pessoal de toda a gente. Eu ainda era uma criança quando o avô Pancho, meio arruinado, acusou o declive definitivo sem sequer o suspeitar: um catarro crónico que acabou numa gripe mal curada que o atirou definitivamente para a cama. Debaixo de um lençol que lhe chegava até à barbicha, estava sempre a chamar-me para que pusesse no gira discos um LP de Los Guaracheros de Oriente, sempre o mesmo. Põe os cubanos, pedia a meia voz. «Borboletinha da Primavera, / alma com asas que errante vais», cantava o grande Ñico Saquito, e por causa daquele bálsamo o avô Pancho extasiava-se, olhando fixamente o tecto, com insondável cenho de recém-nascido. «Eu quero vê-la para beijá-la, / com esses beijos que tu à flor/ dás quando o mel lhe queres roubar». Anelito, põe-me os cubanos, repetia a toda a hora, ausente do quarto onde jazia e da hora que ainda lhe tocava viver. Embora, como ele, eu não tivesse consciência do mal que o consumia, por apreensão demorava-me a ligar o gira-discos para observar o seu semblante abatido. Prontamente aprendi o repertório completo, sem dúvida o melhor lenitivo para aquela tosse que o condenava. «Borboletinha da Primavera», «Doce enlevo», «Pobre boémia», «Retorna», «Letra de câmbio», «O que semeia o seu milho»... Numa tarde da Primavera de 72, estremeci ao ver como, ao levantar-se para ir à casa de banho, a espinha dorsal do grande Gibrán se arqueava sobre uma grade de costelas delatoras. O pescoço não podia com o peso do crânio. Era a morte em pessoa, a morte viva e serpenteante, como se tivesse saído de uma gravura de Durero. Noutra tarde de Primavera, trinta e tantos anos depois, o tio Quico pediu-me que pusesse os cubanos (assim o disse: “Põe-me os cubanos”) enquanto pintava o último quadro no seu estúdio. Exprimi-me bem: o último quadro. O tio Quico, a quem restavam poucas semanas de vida, sentia-se débil e desejava ouvir exactamente a mesma gravação de Los Guaracheros, agora digitalizada, mas o mais curioso do caso é que não conhecia aquela obsessiva apetência do seu pai moribundo. Estupefacto, apalpei a cicatriz da mão, esta faísca do fogo sagrado, e sem palavras, como uma criança obediente, procurei na pilha de discos junto à aparelhagem. Lá estava. Ao voltar a ouvir «Borboletinha da Primavera» compreendi por que razão a Terra dá voltas, e porquê sobre si própria. «Diz-lhe que regresse, a minha companheira, / pelos jardins da minha quimera, / como um suspiro de amor fugaz». E digo eu que o paraíso dos nossos mortos há-de ser música. A música. Mais para quê?

---------------------
Del libro Historia del mundo ilustrada, 2010
[Traducción al portugués de José Agostinho Baptista]






DER VOGEL

Es stellte die emsige Krankenschwester, die Heri Matisse in seinem letzten Kampf beistand, fest daß der alte Künstler, getreu der schlichten Lebensweise seiner letzten Jahre, in seinen Taschen einzig und allein den Personalausweis, eine Geldbörse und ein halbzerrissenes Stück Papier drug, das beidseitig beschrieben die Einkaufsliste und eine Auflistung von Fast zwanzig Fähigkeiten enthielt, die Vögel besitzen. Wiederholte Male hat Gerald Durrell bestätigt, er kenne keine treffendere Weise, Grandezza und Geheimnis der buntschillernden Vögel zu beschreiben. Das Zettelchen, das kürzlich auf einer unbedeutenden Versteigerung bei Sotheby’s verkauft wurde, beginnt wie folgt: Zucker, Mehl, gemahlener Kaffee, ein viertel Kilo Kürbis, ein viertel Bubango, blaue Seife, zwei Brote etcetera, sie steigen und fallen aus schrägen Lichtfäden, schweben in Wahnsinn und Besonnenheit, erzeugen betörenden Gesang, entwirren Wolken, durchwandern unieren Schlund, wenn der Hunger sagt: da bin ich, einige erklimmen den Gipfel des Genusses, Andere Erlangen die Langlebigkeit einer Galapagosschildkröte, Andere wieder – eingesperrt – hausen sich in der Diele unserer Großeltern ein, etcetera.

---------------------
Del libro Relación de seres imprescindibles, 1998
[Traducción al alemán de Christiane Koch]






SCHNEEWITTCHEN UND DIE SIEBEN ZWERGE

Schneewittchen macht sich mit dem Prinzen davon wie in allen Märchen – aber: Warum eigentlich ist nicht ein Zwerglein für den glücklichen Ausgang gut? Grausame Jungfrau! Ist’s weil du nichos empfindest für die sieben gebrochenen Herzen hinter den sieben Bergen, hinter den sieben Bächen?

---------------------
Del libro Relación de seres imprescindibles, 1998
[Traducción al alemán de Christiane Koch]






DREAM

My father usually dreamt he flew
over the houses and the woods,
and now I usually dream he flies
and flies at every moment,
with his chequered dressing gown,
ah,
his kindness,
his diabetes,
dad,
come,
I call him,
he dreams I dream about him,
and he smiles
lying on the folded pillow,
flying above the houses,
dad,
come,
over the woods,
he reads in the lamp light, page
after page, hour
after hour, he reads
The green ray, he reads
No one writes to the Colonel,
Chaplin’s Memoirs,
I don’t know,
and I turn the page for him,
what a wonder,
nothing smells as good as his pillow,
nothing in the world.

---------------------
Del libro Vigilias, 2007
[Traducción al inglés de Skie Holden y Ana Fernández]






حُلم

كانَ والدِي معتاداً أنْ يحلُمَ بأنّهُ يطيرُ
فوقَ المنازلِ والغاباتْ،
وأنا الآنَ أعتادُ أنْ أحلُمَ بأنّهُ يطيرُ
ويطيرُ في كلِّ لحظةٍ،
بعباءتِهِ ذاتِ المربّعاتْ
آه،
طيبوبتهُ،
مرضهُ السكريّ،
أبتاهُ
تعالَ،
أُناديهِ،
يحلُمُ بأنّي أحلُمُ بهِ
فيبْتَسمْ
على الوسادةِ المطويّة
فوقَ المنازلِ
تعالَ
يا أبي
فوقَ الغاباتْ،
وعلى ضوءِ مصباحٍ يقرأُ، صفحةً
تِلْوَ الصفحة، ساعةً
تِلْوَ الساعة، يقرأُ
"الشعاع الأخضر"، ويقرأُ
"ليسَ لدَى الكولونيلْ منْ يُكاتبُه"،
و"مذكّراتُ شابلن"،
وما أدراني أنا
أقْلِبُ لهُ الصفحة
وأشمُّ وسادتهْ
يا للرّوعة!
لا شَيْءَ أَزْكى مِنْ رائحةِ وسادتهِ
لا شَيْءَ في العالَمْ.

---------------------
Del libro Vigilias, 2007
[Traducción al árabe de Alí Bounoua]